di Guglielmo Ferrero
Queste conferenze furono tutte, salvo la nona, tenute in Milano, tra il 7 febbraio e l’11 aprile del 1897, per incarico avuto dalla “Unione Lombarda per la Pace”. Naturalmente, furono prima dette in forma più breve e più semplice; allungate, arricchite e rimutate poi in vari modi, prima di essere date alle stampe. Al momento di pubblicarle, vorrei esprimere un desiderio: che non si attribuissero a questo libro ambizioni di propaganda troppo grandi; sopratutto che non si chiamasse il suo autore, come già mi sembra di udire, l’apostolo di una nobile utopia, che purtroppo utopia resterà. Questo libro non vuole annunciare agli uomini nessun nuovo regno dei cieli, nè descrivere nessun favoloso paese di cuccagna; vuol solo dimostrare che, nel passato, la guerra è stata la figlia dei peggiori vizi umani e non la madre delle più belle virtù; che nel presente, tra i popoli civili di Europa, la guerra non ha più alcuna funzione da compiere, e che perciò va sparendo; anzi è già morta e sopravvive solo nella immaginazione degli uomini, troppo lenta a seguire i rapidi rivolgimenti delle cose. Questa non è dunque una fantasticheria sentimentale, ma una analisi della vita, una interpretazione della 10 realtà; che può essere erronea; ma che fu tentata con il solo e deliberato proposito di penetrare la verità delle cose. Ammetto io stesso — e spero così di risparmiarmene il rimprovero — che questa dimostrazione non può considerarsi come interamente e rigorosamente scientifica; nè poteva esser tale, in brevi discorsi che miravano specialmente a diffondere nel pubblico le prime conclusioni di lunghe ricerche, che vo proseguendo da anni; e la cui prima dimostrazione, scientifica davvero, spero poter dare tra non molto, con gli studi sulla decadenza dell’impero romano. Pure mi sono indotto a pubblicare questi discorsi, perchè ho veduto che libri di questo tipo servono a diffondere tra le persone colte il gusto delle questioni e degli studi sociali; opera per sè stessa così utile, che si può senza rimorso consumare in essa tempo e fatica. E anche spero che il lettore intelligente non annovererà nè l’autore nè l’uomo a cui il libro è dedicato, per volere del quale le conferenze furono tenute, tra gli zampognari virgiliani che cantano egloghe, e descrivono una vita futura, tutta pace e dolcezze, deliziata da ruscelli di latte e da pioggie di miele. Questo libro è tutto pieno di orrore per la violenza cieca e brutale; per la ambizione sterile delle glorie militari, che non abbia altro scopo fuori di sè stessa. Questo orrore però non nasce dal credere che la vita possa o debba essere mai un idillio ininterrotto, ma dal pensare che, più la esistenza è piena di pericoli, di difficoltà, di grandi e nobili ambizioni, più 11 deve l’uomo purificare la sua morale, la sua politica, la filosofia della vita con cui si governa, da ogni stoltezza, follia e vanità. Ora noi abbiamo bisogno urgente di una simile purificazione. Da quarant’anni si lavora a persuadere il popolo italiano che la salute è per lui nei principî morali e nelle istituzioni di quel militarismo di tipo francese e napoleonico, che fu introdotto tra noi dopo il 1860; da quarant’anni si sottopone gran parte della gioventù maschia all’educazione della caserma; si tenta in tutti i modi di esaltar l’anima del popolo con una passione militare, che se non genera l’energia, la simuli almeno…. Eppure il frutto maturato da tanto lavoro sembra essere una crescente mollezza del temperamento nazionale. Nel mondo nuovo come nell’antico, i nostri operai si lasciano maltrattare a furore di popolo da moltitudini che inferociscono, anche perchè sanno di non trovare nelle vittime nemmeno la resistenza del furore disperato; sulle montagne e nelle macchie nostre più selvaggie il brigante intrepido comanda come un re a contadini e a signori; moltissimi dei nostri piccoli paesi sono ancora tiranneggiati da pochi facinorosi, maneschi e violenti, che la autorità tollera e che la viltà universale non sa umiliare; nelle alte classi gli avventurieri senza scrupoli, moltiplicando le audacie, dominano tutti, i ricchi, i nobili, i potenti, che non trovano nella coscienza dei doveri del proprio grado, ceto od ufficio, la forza di resistere a loro. E infine ecco tutti, a compiere il quadro, ripetere che la gioventù che cresce adesso è una gioventù di cen12 cio. È certo insomma che l’Italia ha bisogno di accrescere in sè tutti i coraggi, dal coraggio fisico al coraggio morale; di fortificare il suo popolino con uno spirito più marziale e di agguerrire le sue classi dirigenti di un maggiore ardire contro la disonestà prepotente. Orbene, questo libro vorrebbe cominciare a dimostrare che l’Italia non sarà mai capace di questa ricostituzione morale, se non capirà che è tempo di riparare agli sprechi del passato; se non capirà che un popolo, come una famiglia, non può vivere sempre di debiti; che è vano credere si possa indefinitamente, con artifici ingegnosi, godere più di quanto si è meritato con il proprio lavoro. La civiltà moderna è piena di agi, di delizie, di grandezze; ma non è ancora l’êra delle fate, in cui non sia più necessario meritarsi queste belle cose con audacia di intraprese e pazienza di lavoro. Invece, dal 1860 in poi, una parte del popolo italiano, quella purtroppo più colta e più favorita dalla fortuna, ha creduto che la civiltà moderna fosse solo godimento; fosse una specie di magia, per la quale noi avremmo potuto godere infinitamente più dei nostri padri, ma senza lavorare molto più di loro. Da questa idea, figlia di vari sofismi e della pigrizia insita nella natura umana, è nato il nostro modo presente di vivere e di governarci; è nata la crisi che, rovinando, dopo un’êra breve di prosperità, il popolo e la classe media, ha rotta, per dir così, la spina dorsale del paese. Non con guerre, fortunate o infelici, in Africa o in Europa; non con una educazione di caserma, che va di13 ventando ogni giorno più una apparenza, si potranno ridare al paese le energie di cui manca; ma con una riforma della vita pubblica e privata, che ristori la fortuna di queste classi, e faccia insieme possibile di migliorarne le condizioni intellettuali e morali. Ma questa riforma non è possibile, se sopratutto la classe media non dà alla fine un esempio di saviezza da lungo tempo atteso invano; se invece di lasciarsi scioccamente traviare da esempi mal capiti di lussi e grandezze straniere, non si persuade, guardando a sè, che senza dolore e spirito di abnegazione non si riesce a nulla sulla terra; che una onesta povertà tollerata pazientemente, durante un dato periodo, può essere, come fu per la Prussia prima del 1870, la prova della saggezza, per un paese il quale abbia da riparare follie passate e voglia prepararsi a futura ricchezza e potenza; che le impazienze della ricchezza e del lusso, privato o pubblico, fanno quasi sempre ricascare più giù nella miseria, nella incoltura, nella barbarie. Infine, al momento di mandare per il mondo questo libro, non posso non pensare ancora una volta, con una specie di vago affetto indefinito, a quel pubblico così variato che venne a sentire questi discorsi e col quale siamo vissuti due mesi, in una intimità, intellettuale, piena, da ambedue le parti, di tante sottili compiacenze e di tante calorose espansioni. Dei due mesi che furono necessari a svolgere, una domenica dopo l’altra, questo ciclo, mi rimarrà lungamente la memoria come di uno dei periodi della vita in cui ho vissuto più interamente in 14 una condizione di ebbrezza gioconda e di felicità piena. “Era — domanderanno molti — il piacere di vanità, provato nel ricevere gli applausi, nel vedere di volta in volta il pubblico crescere e riscaldarsi?” Sarei un ipocrita, se affermassi che questo piacere contribuì poco alla felicità di quei giorni; ma sento di poter dire che altri motivi più nobili di compiacenza si mescolavano ai primi e che la mia gratitudine per gli uditori di Milano non nasce tutta da un sentimento così egoistico. Vivissimo, intensissimo, quasi inebriante fu il piacere di vedere come l’anima di tanta gente diversa vibrasse per queste idee, trovasse in esse quasi il soddisfacimento di un bisogno intellettuale e morale. Tante delle idee di questo libro furono meditate a lungo, tra i cimiteri silenziosi di lontane cose morte da secoli, su vecchi libri e documenti coperti dalla polvere veneranda di ciò che fu, tra le rovine di civiltà passate; andavano diventando l’oggetto di una contemplazione deliziosa ma solitaria, nella quale non pensavo di avere a compagni che pochi spiriti curiosi di vedere e sapere…. A un tratto invece ecco rivelarsi che quella, che sembrava curiosità personale, rispondeva a un interessamento di molta gente; e la gioia ne è stata vivissima, come di chi si sente meglio a suo agio, quasi direi più a casa sua, nel mondo; come di chi, viaggiando paesi stranieri, si imbatte a un tratto in un crocchio di amici del suo paese, che parlano la sua lingua, e che egli credeva restati nella patria lontana; come di chi si sente crescere a un tratto tutte le forze dell’anima, trovandosi improvvisamente davanti la cosa, che 15 egli supponeva lontana e credeva di dover cercare con lunghe fatiche. Ancora una piccola avvertenza, e ho finito. Questo libro viene in luce dieci mesi dopo l’Europa Giovane. Ma l’Europa Giovane, se fu pubblicata nel marzo del 1897, fu scritta, parte nell’inverno e parte nell’estate del 1895; cosicchè questo nuovo libro rappresenta il pensiero dell’autore maturato di due anni. Il lettore potrà così spiegarsi certi mutamenti di idee, senza supporre nello scrittore una volubilità troppo grande.